giornata della memoria.
24 Aprile 1945.
Il tenente con la bestemmia sul berretto, zuppo di pioggia nera, aveva detto piano “Dieci di voi per ognuno di noi” poi aveva sorriso dai lati della bocca che piegavano in basso, come i vigliacchi. Il prete, lo aveva guardato in faccia e poi aveva chiesto “Lei crede in Dio?” “Certamente” rispose con la bocca che sapeva di morte. Il Prete si fece il segno della croce e poi gli sputò in faccia. Fu il primo a morire inginocchiato nel fango, senza pregare, perché non ce ne era il tempo, il tempo di un buco, un buco nella testa. La testa continuò a fissarlo negli occhi,il tenente la tirò via con un calcio e rise, con quella faccia da iena, con quella risata da iena, poi ,raggiunse il suo branco e li annusò uno per uno. Li radunarono tutti nella piazza del paese, il campanile piegava a destra e la pietra veniva giù insieme all’acqua nera. Il tenente con la faccia da iena annusò l’aria e leccò via alcune gocce dalla falda del berretto. “La sente la paura?” chiese al terzo della fila che la paura l’aveva già ucciso e stava in piedi solo perché era stretto tra le spalle degli altri, negli occhi, un attimo prima, qualcuno giurò di aver visto un campo di grano e una fetta di pane e zucchero. “E’ questa puzza la paura, ed io non posso farne a meno, vivo per questo.” Qualcuno si teneva per mano, qualcuno piangeva, un uomo era perfino svenuto mischiando l’orina alla pioggia e sussurrando “Mamma” perché quando sai che stai per morire chiami tua madre. L’avorio dei denti gialli tintinnava nelle risate sporche, cinquanta vite senza vita, solo respiro. I colpi arrivarono a poca distanza l’uno dall’altro, le bocche nel fango, sulle scarpe, le braccia dietro la schiena. Pochi minuti poca terra, il tempo che serve a morire e quello per scavare. “Chi piange adesso?” pensò la iena col berretto uncinato tirandosi via le zecche con i canini. Era un pianto dalla gola, nella terra, vibrava nello stomaco fino all’inguine, fino a farti piegare le gambe. “Chi piange? Chi ha paura, Chi?” sibilò con la lingua tra i denti. Dal cumulo di corpi, dalle orbite vuote, dalla dignità violata tra le gambe, arrivava un pianto, un pianto come un grido. La iena lo vide uscire dal groviglio di viscere, era ancora li, tra le gambe di Marta, la puttana del paese, un bambino, la vita e la morte annodate allo stesso cordone. Lo tirò su leggero come un respiro, sporco di sangue e di pioggia, lo fissò per un attimo e lo annusò. Il bambino smise di piangere. Lo annusò ancora, e ancora, e ancora. Minuti lunghi come una canzone, per cercare quell’odore di cui aveva bisogno, che gli serviva per vivere, l’odore della paura.
Dicevano che nella notte s’era sparato nella testa, con la divisa indosso, il pelo lisciato, le medaglie dei morti e della vergogna appuntate vicino a quel cuore di iena. Il sangue sul muro sembrava una medusa o nebulose rosse. A liberarci sarebbero venuti poche settimane dopo, la ritirata aveva lasciato poche cose, quella macchia di sangue sul muro, armi in un magazzino, qualche rotolo di amlire e 50 croci di legno nel campo del notaio Graziani, che tanto era morto con loro, un silenzio che avrebbe accompagnato gli sguardi bassi per troppo tempo. Io sono stato cresciuto da mia sorella che s’era nascosta nella latrina tra le vacche. Che mia madre era una puttana l’ho saputo a dieci anni, così come che la vita me l’ha data morendo. Che mio padre era chiunque l’ho capito un minuto dopo. Mi chiamo Luca e non ho paura.