Mio padre era ascensorista, e anche mio nonno. Lo vedevo pochissimo mio padre, tutto un su e giù all'Hotel Babel tra la costa ovest e la quattordicesima. Faceva il turno di notte mio padre. Un giorno dopo la scuola mi portò in cima al roof garden della torre di mezzo. Dalla vetrata si vedeva una distesa eterna di ferro battuto e sassi. Ai tavoli servivano pioggia acida e tè. allora capii che è così che muoiono i ricchi, seduti. "Il destino" come mi disse con le costole strette nei suoi alamari "è una pulsantiera di rame ed avorio, devi capire le persone Norberth. Ascoltare. Il dono non basta. Tu hai un gran dito, tocco, leggerezza, proprio come me, e come tuo nonno prima di me, e hai anche 2000 metri di elastici e cavi nello stomaco, quando inghiotti figlio mio senti le carrucole, come le ginocchia dei vecchi o le navi che affondano al porto, cigolando, nel proprio mercurio. Ma questo non basterà" aveva ragione lui, cristo. Questo sono io, Norberth Mendhelbaum ascensorista al Babel, per servirvi. Sbagliare piano è un arte, un dono, come lo zio Mulleen, che era divinamente stonato e fece crollare il Metropolitan Music Hall nel 39 stonando come un alce in calore "My sweet Elevator in September". Mai ricostruito, 120 morti, un trionfo. Non capire un cazzo di quello che ti dicono, non sapere le lingue, non ascoltare (confesso) è il mio talento. Con il mio su e giù, ho portato l'assassino olandese nella stanza del giudice in novembre, eppure la morte fu dolcissima, pasta di mandorle nelle vene e un equo processo. Ho portato la puttana berbera sulla retta via, a battere senza le curve e con un buon divano di broccato sotto il culo benedetto, nella stanza del poeta impotente. Ho portato il prete con la fede che balla all'anulare, nella stanza della puttana, senza nessuna fatica. Ho portato l'uomo senza fede nella stanza del prete. Ho portato il cieco con la valigia di pelle, sul cornicione a dar da mangiare ai corvi. Ho portato anche il giudice nella stanza del ladro di polli, aveva la lingua da faina e le piume da cuscino nella bocca. Ho portato la donna che sorride nella stanza dell'uomo che piange, la iena e un coccodrillo a mangiarsi i ricordi l'un l'altro. Ho portato financo lo storpio nella stanza del dandy, a provare le giacche e darsi profumo, dritto almeno una volta davanti allo specchio, come mamma non l'ha fatto. La donna coi fianchi larghi invece mi disse "15° piano, grazie" ogni giorno. Finché non la portai sul tetto, per far colpo, per farla felice e ovviamente perché non avevo capito un cazzo. Ci amammo a lungo vicino alle piccionaie e fu tutta idraulica, sapete, vapore rame e stagno. Poi restammo sfiniti a guardare i cornicioni con vista sul porto, sfasciati nella mia divisa rossa calata fino alle ginocchia sbucciate. Tirandosi la gonna sopra le anche "15° piano, grazie". "Da qui", le risposi, "è tutto orrizzonte, tutto un domani, promesse da mantenere, alimenti" dalle stazioni meccano, partivano trenini Rivarossi e lucciole con lanterne. Lei sorrise e non capì un cazzo, poi disse "15° piano, grazie" io sorrisi, non capii un cazzo e le feci un ditalino, proprio li, sul catrame del tetto coibentato di marzo. Allora Lei si sciolse i capelli che finirono due piani più giù, negli occhi di una voyeur, e mi disse, di rossetto e saliva aspra "ti amo". Io risposi srotolando 6 piani di budella nella tromba del mio ascensore "15° piano, certo."