-Quanto manca? Chiedevo.
-Ancora un poco, devi avere pazienza. Lo sai cos’è la pazienza?”
-No, cos’è?
-È, quella cosa che dopo un attesa ti fa dire ne valeva la pena.
Era l’estate del 1967 o era il 1999 non ricordo. Ero un bambino di poco più di quaranta anni, con le gambe magre e le scapole senza piume. Orlando invece aveva le dita lunghe come sartie e nodi serraglio al posto delle nocche salate.
Non che ci credessi proprio a questa storia della marmotta bianca. Ma lui diceva che la notte di San Lorenzo la cosa migliore che ti può capitare di vedere, non sono le stelle cadenti, ma la marmotta albina. Diceva che usciva dalla sua tana, bianca come un dente da latte, a mezzanotte precisa, si issava sulle zampe e ululava ai satelliti. Diceva proprio così. Diceva anche che suo zio Saro ne aveva vista una sola in tutta la sua vita, da ragazzo, se ne stava dritta su due zampe a contare un quarto di luna per volta intorno a mezzanotte, proprio in cima allo scoglio del salto, e dopo averla vista era diventato ricco sfondato. Ricco al punto che costruiva ponti che poi lasciava a metà, pensa te. ”Orlando” gli diceva “Ricordati che le cose migliori, le più belle, sono quelle che non sembrano finite.”
Orlando diceva un sacco di cazzate. Come quella volta che raccontò di essersi scopato tre donne contemporaneamente sul ponte di una nave diretta a Pernambuco. Lui raccontava quel genere di cazzate lì, quelle che nessuno può contestare, cazzate senza prove insomma, delitti perfetti. Che poi sono le migliori, infatti io ci credevo. Aveva un dente di squalo al collo e dei risvolti poetici ai pantaloni, roba da mal di cuore. L’estate invece girava scalzo per le strade del paese con una fiocina infilata nel costume color aragosta e mangiava solo fichi d’india, con tutta la buccia. “Perché le spine a me, non mi fanno un cazzo.” Diceva ridendo di sangue.
Comunque quel giorno ci arrampicammo a passi bianchi fin sopra la scogliera, nel punto più alto, quello dove il vento, fermo come un agguato ha la voce delle cicale. L’acqua da lì sembrava verde, proprio come il mondo da dietro un culo di bottiglia. Potevamo vedere il narvalo in amore e le prue degli scogli come un rompighiaccio. Le nuvole erano un drago bianco diretto verso il golfo di Capistrano. Aspettavamo.
-Arriverà. Diceva. – Arriverà.
Bisognava ammazzare il tempo. Orlando nell’attesa fumava cicche avanzate a qualcuno, e poi faceva scoppiare i ramarri imbottiti con il tabacco. Poi rideva. Oppure se ne stava fisso verso l’orizzonte con le mani nelle mutande. I pomeriggi si scioglievano liquidi nel battere del perineo, dopo i racconti sulle puttane greche o su quella volta che la cugina con le tette come due cocomeri glielo aveva toccato di nascosto durante la messa. Proprio mentre la zia si soffocava con l’ostia tra le braccia dell’amato Don Gaetano. Ma questa è un’altra storia.
Le nuvole ormai sembravano un cane da caccia e puntavano verso sera, con la coda dritta e una zampa avanti. Aspettammo per ore. La marmotta albina non venne mai. Mai più. Contammo duemilaseicentosessantasette scolature di desideri , vedemmo un buco nero e scoprimmo subito appresso a un galeone, la costellazione della falce e martello. Di quei desideri non se ne avverò nemmeno uno, però va detto che imparai ad aspettare. Questo almeno, glielo devo.
- Quanto manca?.
- Ancora un poco, devi avere pazienza. Lo sai te cos’è la pazienza?
- No, cos’è?
- È quella cosa che dopo un attesa ti fa dire: “ Chi cazzo me lo ha fatto fare.”