venerdì, ottobre 27, 2006

tasche (storia di L.)

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Mi sto abituando, alla fine è successo. Mi addomestico. Guardo fuori, cambiano le stagioni, come un mese distratto, come ombre cinesi. Mi basto, mi accontento del pessimo film che scorre fuori, dopo il caffè, oltre la quinta del davanzale. La sera ho l'abitudine di lasciare le scarpe affiancate e leggermente sfalsate , per pigrizia sapete, così mi trovo il primo passo della giornata già bello che fatto. Insomma, non è che vivere di profilo non mi piaccia, ma insomma , ogni tanto, mi garberebbe guardare la vita in faccia, non dover rientrare sempre dalla porta di servizio aggiustandomi i pantaloni. Per questo ho scelto di vivere un ora indietro, aspetto, perché non ho tempo o come dice il mio analista, per paura. E come si fa a non aver paura dei sorrisi, delle carezze, delle parole, e anche di quei piedi freddi li a fianco, insomma di chi diavolo sono? E perché passare la notte con due piedi? Forse non ho memoria ecco, ricordo perfettamente cosa ho mangiato per cena e nient'altro, ma per avere un passato, prima, bisogna almeno avere le tasche. La verità è che io sono un arido, c' ho la desertificazione dell'anima e mai che si trovi un annaffiatoio. Ma da uno nato da una gravidanza isterica che altro potevate aspettarvi? Dev'essere un problema di approccio, come diceva sempre il mio pappagallo : “ci vuole fegato a vivere ripetendo le tue stronzate” e oggi poi è quasi il mese prossimo. Novembre in fondo, è solamente ottobre che si è fatto coraggio.

lunedì, ottobre 23, 2006

lo strano caso di Gregorio S.

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si lo so, è di un anno fa, ma io sono stanco, stressato, ho la dissenteria, la mafia russa alle calcagna e poi, è l'ora dei classici e di leggere anche LEI...

E’ successo di nuovo, Stamattina mi sono alzato e guardandomi allo specchio, mi sono accorto di essermi trasformato in un insetto. Avevo già avuto dei dubbi giorni fa, quando dopo aver visto uno zampirone ho cominciato a camminare sulle pareti. Ho cercato inutilmente di infilarmi un soprabito poi ,sfinito, prima decido di farmi un bozzolo a punto croce, poi, mi copro con un lenzuolo a cui applico due fori per gli occhi. Alle ore nove suonano alla porta, vado ad aprire “Joseph K.?” “No, sono Gregorio S:” vengo così arrestato da due agenti di polizia che mi accusano di essere nel racconto sbagliato. Gli faccio presente che probabilmente è il contrario, “Giustizia Creativa” si giustifica l’agente Grosz. Penso che probabilmente il tutto possa dipendere dall’uso non proprio moderato della coccoina o alla bottarga scaduta di zia Ghertrud, (la settimana scorsa ho visto un bue muschiato nel mio salotto che leggeva “Essere e tempo” di Heidegger commentandolo con dei muggiti). Al processo, malgrado tenti invano di dimostrare che c’è uno scambio di persona e che il mio nome è Gregorio S. e non Joseph K. svolazzando per l’aula, vengo alla fine condannato a morte per “appropriazione indebita di identità e di racconto altrui”. La cella è stretta e piena di scritte sui muri, la più inquietante recita “Ora che l’ora è vicina mi rendo conto che essermi spacciato per il direttore della banca di Dresda non è stata una buona idea, ma giustiziarmi obbligandomi ad incollare la lingua al ghiaccio del freezer mi sembra mostruoso”. L’esecuzione sarà all’alba, mi verrà incisa la mia colpa con degli aghi sulla schiena e poi sarò obbligato ad ascoltare “Ottetto per pialle e controfagotti in si bemolle” di Arnold Schönberg indossando delle scarpe molto strette. O forse, e Dio non voglia, come già accaduto ad altri verrò costretto a leggere Carducci. Sapete non è tanto per la mia condanna, ma piuttosto perchè in questo momento Joseph K. è probabilmente a casa mia a finire il mio strudel. Pochi attimi di serenità quando mia sorella Agatha è venuta a farmi visita, “tieni” mi ha detto “sono dei pasticcini alle mandorle con delle limette per unghie all’interno", gli faccio presente che non riuscirei mai a segare le sbarre con quelle “ questo lo so, ma non vorrai morire con quelle mani?” Agatha è sempre stata la mia preferita, in uno straziante commiato ha tentato di uccidermi con uno schiacciamosche. Scrivo ai posteri su questo muro con un vecchio chiodo arrugginito, che muoio senza sapere perché, in un corpo che non mi appartiene e soprattutto senza sapere cosa si prova a pagare l’ultima rata del mutuo. Mi consolo pensando che a breve avrò le risposte ai grandi quesiti dell’uomo, cosa c’è dopo, se è meglio del prima se c’è anche un durante e se si, dopo si può fumare? E soprattutto quanto contano i preliminari? Sulla mia lapide voglio che scriviate: “Se un giorno e Dio non voglia, cominciaste ad appallottolare sterco nel vostro soggiorno così senza preavviso, sarebbe il caso di cominciare a preoccuparsi ed in ogni caso, state lontani dagli insetticidi.
Post Scriptum,
Non cambiate i fiori nel vaso, sono di plastica”.

Questo straordinario racconto è stato ritrovato postumo trà gli effetti personali di Gregor F. Zaska, compagno di banco di Franz Kafka. Sotto le ultime righe un piccolo appunto recitava “Questo Kafka non mi piace, attacca continuamente delle cose sotto il banco, copia tutti i miei compiti ed ha una strana faccia, sembra un insetto stercorario

lunedì, ottobre 16, 2006

luna milonga

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R. Doisneau

"Alternativamente, uomo e donna invadono lo spazio del proprio partner, gli fermano o spostano il piede, infilano repentinamente una gamba tra le gambe dell'altro, creano degli incastri che miracolosamente si sciolgono nel giro di una battuta .” E. M.

tempo 2/4 :

mi ricordo, mi ricordo di quella volta che ho vomitato tre giorni di fila e tu mi reggevi la fronte mentre stavo piegato sulla tazza del tuo cesso, mi ricordo di quando siamo corsi fino ad Aconcagua in moto per raccattare tuo fratello, seduto sulle gambe, mentre la vita gli danzava intorno e gli mangiava le braccia. Mi ricordo, si, ricordo la luna come una moneta meticcia, mentre ripasso a china le tue matite e mi sembrano le cose più belle mai viste, mi ricordo la tua fica nera ed io che ci ficco il naso dentro e ti dico “ma ci pensi che le donne tra le gambe hanno un sorriso?”. Mi ricordo la tua mano senza anelli che sale e scende come una milonga mentre tua madre, di la, bestemmia sui chicchi di melograno, io rovescio gli occhi all'indietro e muoio in un fazzoletto. Mi ricordo l'odore sulle mani, tu che scivoli nelle scarpe verso la mattanza del giorno dopo, la targhetta stinta dei tuoi calzoni di velluto e il tuo culo bianco sul parquet. Mi ricordo il nostro tango con le braghe calate e una rosa di carta fra i denti, mentre tutti guardano un anno che muore. Ricordo la tua voce da radio Londra che gracchia un annuncio cerchiato di rosso, uno spergiuro sputato, e persino i tuoi scarabocchi al telefono. Ma, non ricordo la tua faccia.

sabato, ottobre 07, 2006

ballata stolta

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Non lo so quand'è che ha smesso di funzionare, quando si è rotto. Il click che non ho sentito. C'è stato un brutto giorno, quello sbagliato, o per quelli che credono alla cabala, senza stelle o se preferite quelle sbagliate. Io, sono nato sotto la luce di una stella morta, e la mia ombra quindi, è morta pure lei. Nei tagli cuciti sui miei troppi fianchi, a portata di mano, solo un poco di filo di ferro, chiodi e un anello troppo stretto. Sono una gazza ladra fratello, uno stolto da fiera che batte le mani a un riflesso ingannevole.

lunedì, ottobre 02, 2006

germana de calavera

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Suor Germana de Calavera picchiava come una lottatrice thailandese e non lasciava segni. Tutto in nome di cristo, beninteso. Quando mi picchiava io la guardavo in faccia e lei si incazzava. “Abbassa lo sguardo” diceva muovendo i baffi da ratto femmina, e io, continuavo a fissarla dal basso del mio metro di bambino. Allora, picchiava più forte, sui palmi o anche sul culo. Poi quando aveva finito, stremata , mi faceva dire un padre nostro con la cuffia arruffata come un corvo morto e la faccia fradicia. Puzzava di naftalina suor Germana, e di denti marci anche. Mi parlava a un centimetro dalla faccia, rubandomi il respiro e l'innocenza, Aveva anche un rosario di legno con chicchi grandi come albicocche che lanciava contro i bambini con la precisione con cui un bolas nella pampas centrerebbe un tacchino in fuga.. Passavo l'infanzia a sfuggire agli occhi di un cristo che ti seguivano, facevo avanti e indietro in un piccolo corridoio che odorava di minestra e chiodi di garofano, solo per vedere se mi guardava ancora. Un passo avanti e uno indietro, e gli occhi sempre li, fissi nei miei, severi e senza dolore malgrado le spine arrotolate intorno all'aorta in fiamme. Tutto questo era così coreografico e mi insegnò l'arte sublime dell'indecisione, cosa che peraltro superai in un età in cui il tempo rimasto sconsigliava troppe indecisioni. Matteo era piccolo, più piccolo di tutti noi, perché era nato un mese prima diceva lui, e quando stavamo insieme mi si scioglieva il cuore e anche l'inguine, stare abbracciati o toccarsi, non sembrava un male, davvero. Non sapevo ancora cosa fossero le trecce o il mal di pancia, ma conoscevo la colpa invece. La colpa aveva i calzoni calati e lasciava strisce rosse sotto la schiena o macchie calde sulle lenzuola del mattino. La colpa era in ginocchio. Matteo vennero a prenderlo di giovedì mi pare, proprio mentre suor Germana crepava nel refettorio con un osso di nespola di traverso, la lingua blu e le vene del collo come una medusa, gorgogliando con gli occhi al soffitto un “Oh cazzo...”. Al funerale venne anche la madre superiora, con tacchi da meretrice e un crocifisso di noce sulle spalle. Nella foto sulla lapide, suor Germana aveva meno baffi del solito e una cuffia da festa color porpora, l'epitaffio recitava “Chi è senza peccato, mi spieghi come si fa”. Io, non visto, sputai nella bara, e seppi in quel momento, con assoluta certezza, che Dio non esiste. Amen.