venerdì, ottobre 26, 2007

la rossa


Jan Saudek

Alessandra c'aveva le tette più grandi di Roma. Quando passava sul ballatoio, era come una danza sott'acqua, mi pareva che insieme a lei ballasse anche tutto il resto. Le sue tette Erano bianche come il latte, pesanti e leggere, enormi. Ogni volta che mi incontrava mi sorrideva, e le sue lentiggini mi rubavano il respiro, poi, mi passava la mano tra i capelli e mi diceva “se mi sposi, io ti aspetto...” e se ne andava ondeggiando il culo come un altalena. Alessandra c'aveva i capelli rossi e pazzi, la gente si voltava per strada a guardarla. Mio zio Aurelio distrusse una lancia Ardea appena uscita dalla fabbrica per guardargli quel miracolo ansante. Si dice che sia rimasto li, in mezzo al vapore con un palo della luce piantato nel radiatore, nel suo vestito color cachi e con un sorriso felice, per sempre. Alessandra faceva la puttana, che non ho mai capito bene cosa volesse dire, almeno fino a quindici anni, perché quando lo chiedevo mi madre abbassava lo sguardo e mio padre diceva “tu non devi fare domande, stai zitto e ascolta”.

L'onorevole Malagò invece, mentre scopava parlava, come tutti i fascisti. Alessandra invece ascoltava, come tutte le donne. Gli aveva ammazzato il fratello partigiano alle Fosse Ardeatine e teneva nel portafoglio una foto in cui, in posa da caccia grossa, poggiava lo stivale nero sulla testa di una preda ricoperta di calce viva. L'onorevole Malagò, ringraziando iddio veniva subito, come tutti i democristiani, e un pomeriggio di aprile gli lasciò in eredità il nome di tre sottosegretari all'edilizia corrotti e una sfilza di nomi di morti mischiati al cemento nelle fondamenta di un albergo a 100 piani nella provincia di Bari. Questo, insieme ad un infarto nel bel mezzo di un pompino, lo tolse dalla vita politica, e lo costrinse a farsi imboccare per il resto dei suoi giorni. E allora capii cosa intendeva mio padre quando una sera mi disse, con gli occhi sui larghi fianchi di mia madre, che la vendetta è un piatto che va servito a letto.

Mio padre a puttane ci andava, e si vestiva come se dovesse andare alla festa del santo patrono “C'ho la briscola stasera” sorrideva immerso in una nuvola di acqua di colonia e mia madre rispondeva sottovoce “ e io c'ho 'no stronzo 'n casa...” Mio padre era un tipo strano, ha passato metà della vita sotto un cappello, diceva sempre che un uomo senza un cappello non è un uomo. Secondo me, un uomo senza un cappello non sa dove nascondersi, ma questo, non glielo ho mai detto. Lui voleva fare il sindacalista delle mignotte, anche se “operatrici del piacere” gli pareva più dignitoso, forse più per lui che per loro. Quando tornava dalla “briscola” lo sentivo fischiettare per le scale, mia madre lo aspettava in piedi, e gli diceva “vatti a lavare ” poi, come ogni volta, si rimetteva a pregare, bestemmiando. Una mattina di febbraio mio padre mi infila un cappello in testa, mi obbliga a lavarmi i denti e mi fa il bagno nell'acqua di colonia, poi mi dice “Oggi, vieni alla briscola con me”. Era il mio quindicesimo compleanno, e quel giorno, odora di lavanda e borotalco.

L'onorevole Malagò sbavava da un lato e non muoveva più un braccio, ma aveva molti amici potenti e con molta memoria, come tutti i mafiosi. Venne a prenderla il maresciallo Lapisarda, quello con la faccia da panettiere e due appuntati con le strisce rosse sui calzoni. Mia madre con la testa piena di bigodini gli chiese intirizzita sul ballatoio "Cos'ha fatto?" il Maresciallo Lapisarda che a puttane non ci andava, ma la moglie la sfasciava di botte perchè la famiglia è sacra rispose “Puttana passi, ma puttana e comunista no”.

Oggi ho quarant'anni, non mi sono mai sposato. E ogni volta che vedo una ragazza coi capelli rossi, mi fermo senza respiro, e aspetto.

lunedì, ottobre 22, 2007

una lista (quattroquarti)





restano, di ieri sera, la formica nel mio zucchero marrone , la ruggine nel lavandino, il tuo tabacco nella mia saliva, un filetto al pepe verde, l'amore d'estate con il risvolto dei calzoni al ginocchio, il tuo odore nel libro a metà, una mano sugli occhi mentre faccio l'indiano, una attesa nella schiena. la paura come una bella speranza, una scarpa dispari. Batto un tempo scalzo, t'ho esitata, troppo.

sabato, ottobre 13, 2007

la giacca




pensavo che bastasse disegnarla una finestra, deve essere l'amianto nella fodera, per tutti quei pensieri ignifughi pieni di lana di vetro e misto cotone, o per il pezzo di legno che mi cacciate sotto la lingua ogni volta benedetta. Uscire da questa giacca, chiuso nei gomiti nudi con le toppe, a ricordarmi della tettona che lavora al caffè, e il caffè lo fa da schifo a dirla tutta, però, mi porta sempre la bustina dello zucchero e poi mi sorride e ricorda il mio nome. E allora capita che ne bevo dodici in un giorno e non chiudo occhio tutta la notte, e allora mi dite che vi rompo i coglioni, che leggo ad alta voce, che non ho età. E allora stringete bene dietro la schiena, dove c'è il cuoio delle vertebre, la taglia stinta della prigionia, il dolore salato della bella stagione, uno stomaco contro i bottoni. Roba da poco, tasche e bocche cucite come le confessioni, dentro le costole, arreso al velluto. Sento il respiro grosso di chi è nascosto nell'armadio e nessuno lo cerca. Senza le tue stampelle di legno queste spalle sarebbero senza premure, e non è per dire ma due maniche sono troppe per chiunque, figurarsi un buco per il collo. Credevo che bastasse disegnarla una finestra, la targhetta che mi graffia il collo recita a soggetto: 70% acrilico, 23% senso unico di colpa, taglia corto mi dico, succhiando naftalina, che tutto ha un prezzo, anche essere nei tuoi panni, in saldo.

“ voleva un pensiero felice, o almeno, con una lima dentro”