lunedì, maggio 28, 2007

capistrano


Zelia Bishop


"abbiamo giocato alla morte per tutta la vita che ricordo"


il golfo di capistrano è pieno di relitti verde bottiglia, di bava di sapone. Il depuratore di Lunastraga è rotto da anni, e le rane pescatrici hanno imparato a pescare con le canne, e sono delle abili conversatrici, ma non portano a casa un cazzo di niente perchè i pesci se li mangiano già nel secchio. Io mi alzo quando posso, quando mi si aprono gli occhi in pratica, o quando la vescica tira con il piscio rumoroso delle cicale. Per arrivare al relitto ci vogliono venti minuti a nuoto, me li faccio senza respirare, finchè non mi batte il collo e lo sterno. Il relitto lo riconosco da lontano, perchè l'acqua si sporca di ruggine, e negli occhi ti si fa una macchia scura, poi, devi nuotare e contare, i relitti sono sempre i secondi a destra. Il relitto si chiama Giacomo, e sulle costole di legno c'è scritto "i bambini non vogliono crescere, perchè non vogliono morire" Sul fondo di velluto poltiglia, ho trovato piatti, scarpe, cornici d'argento, monete di cicoccolata, chele vuote in cui soffiare il richiamo per le balene, una pistola con il calcio d'osso, un uncino e una foto. lo iodio se le mangia le foto, la faccia corsara non la vedo più.Ecco, Io non lo so che vuol dire, che cerco, o perchè ci vengo, ma so che se non sbatto i piedi muoio. Io e Giacomo, abbiamo giocato alla morte per tutta la vita che ricordo, poi, un giorno di maggio ho staccato i piedi da terra in un battere di scapole, e l'ho lasciato solo coi suoi baffi. Questo vuol dire vivere incagliati. Essere soli. Non avere i baffi, mai.


Pietro

mercoledì, maggio 16, 2007

ballata dei nomi salati


strepitio di vetri

avevo un gallo da combattimento e tasche piene di terra, avevo il tuo nome sui reni e uno sguardo presuntuoso come un sestante. Era lo spiraglio dei posti dove non torno, quelli che mi hai fregato, che non guardo mai per non sentirlo pronunciare, soffiare labiali, sparare consonanti come sassi. Avevo una malattia salata che rubava i giorni, che negava i minuti, suonava così, come uno sputo nell'acqua. Il tuo nome, è un morso di neve.

martedì, maggio 08, 2007

alvy



sapete, la cosa che amo di più della masturbazione è che se vieni subito, nessuno mette il broncio e non perdi il film delle 21.00. Questo veniva trovato assai bizzarro dalla mia prima sessuologa, che a sua volta viveva con un vibratore divorziato nelle campagne del New jersey. Io mi chiamo Alvy, e non ricordo un solo giorno della mia vita in cui non abbia pensato al sesso almeno una volta, la mia infanzia la passai chiuso nel bagno , o in compagnia di Elmo, che, era il mio migliore amico, figlio di un pastore anglicano e di una bassotta. Elmo era bigotto, talmente bigotto, che se mi masturbavo io, diventava cieco lui. Proprietà transitiva pensai allora, più tardi invece compresi che il senso di colpa non può abbassare le diottrie, quanto piuttosto il conto in banca. Il giorno del ringraziamento del 1966 fui sorpreso in bagno, da mia madre, con in una mano playboy di giugno, e nell'altra un coscio di tacchino. Fui trascinato di peso da padre Krueger, il parroco esorcista del quartiere, il quale, mi convinse che continuando così sarei ben presto diventato cieco, o monco. Per non fare torto a nessuno, comprai un cane guida. A dodici anni cominciai la prima terapia. Il Prof. Allen fu molto gentile mi fece sdraiare sul lettino, io cominciai a parlare diffusamente della mia famiglia, e quando arrivai al mio orsacchiotto “Harpo”, alla domanda “fare sesso con il proprio orsacchiotto è incesto?” mi sentii rispondere “no, a meno che tu e lui non abbiate lo stesso cognome”. Dopo due anni di sedute, ricordai che avevo sorpreso mia madre ad accoppiarsi con un mugnaio durante la festa di san patrizio, da li la mia intolleranza ai farinacei, ai mattarelli ed agli gnomi in genere. Dopo il liceo, incontrai Paula, lei, laureanda in lettere antiche lavorava in una autolavaggio in topless, io sbarcavo il lunario disegnando vignette pornografiche per il giornale della parrocchia. Ci sposammo in gran fretta a Las Vegas, davanti ad un parroco vestito da Elvis e ad un organista con il parkinson. Ci amavamo, e il sesso fu un collante fortissimo, Paula era vaginale, io clitorideo, questo ci rese complici e perplessi. Con lei imparai molte cose, come ad esempio che il punto G è l'arma che Dio ha dato alle donne per punire gli uomini per aver inventato il calcio, o che, nel sesso, le misure non contano, purché non si arrotondi per difetto. Paula poi, era diversa da tutte le altre donne conosciute, soffriva di emicranie a grappolo, quindi lo facevamo una volta all'anno, senza bisogno di scuse, ma soprattutto aveva orgasmi multipli, anche 4 o 5 di fila, ma tutti in mia assenza, il che, mi spinse ben presto a convincermi che qualcosa non andava. Poi, una mattina trovai sul cuscino un biglietto “Non ti ho mai mai amato Alvy, una volta ti ho stimato un poco, ma eri di spalle e non te ne sei accorto.” Paula, la mia Paula mi aveva lasciato, per un imbalsamatore di Ottawa, l'aveva conquistata con delle marmotte impagliate a cui faceva dire cose assurde con delle vocine agghiaccianti, e con una Maserati. Mi disse che io non l'avevo mai divertita così, ma ricordavo un tempo, non lontano, in cui con due cannucce nel naso o ruttando in un megafono, la facevo sbellicare dalle risate. Quando davanti all'avvocato divorzista vestito da Elvis e alla stenografa con il parkinson, le chiesi, “ e il sesso Paula? Hai sempre finto?” lei rispose “gli orgasmi erano tutti veri, ma ho sempre finto di essere tua moglie”. Fu il crollo, entrai in terapia con uno psichiatra neonazista di Wiesbaden, come unico caso al mondo di uomo affetto da invidia della vagina, questo, insieme ad un bizzarro modo di pronunciare la parola “prolasso” mi valse la copertina del Ttimes di maggio, immortalato fuori da un enorme utero con le sbarre e un cartello in mano che recitava “fatemi entrare”. Scoprii così, grazie all'uso smodato degli psicofarmaci e di una camicia di forza, che in giornate come questa ad esmpio, guardarsi intorno, è meglio che guardarsi dentro. Mi innamorai del mio terapista quindi, che a differenza di Paula non aveva i baffi, però costava molto meno. Adesso sto meglio, e il Times mi ha dedicato una nuova copertina, come primo uomo con l'invidia del pene, la foto mi ritrae dentro un grande utero con delle sbarre, il cartello nelle mia mano recita “fatemi uscire”.

giovedì, maggio 03, 2007

passaggio


Jenny Saville

Non sarò più un bambino. Non scivolerò più nei tuoi tacchi, verso la punta, con uno sparo di rossetto ai lati della bocca, davanti al tuo specchio, e due perle di fiume appoggiate sulle orecchie. Le ciglia troppo corte, le calze troppo grandi, in punta di piedi. Devo nasconderlo tra le gambe adesso, come non hai fatto tu, scordarmi che sono nel corpo sbagliato, quello di un altro, bella caricatura. L'ansimare lento che sento, è ridere tra le cosce, il respiro della colpa. Dimmelo ancora che sono bellissima, voglio solo essere madre.