lunedì, luglio 26, 2010

prestazione straordinaria


Jack Vettriano


Il fiato speso per arrivare al quinto piano della pensione di via Veroli, s'era strozzato in gola poco dopo la porta, oltre la tenda fatta con le perline di plastica, con l'aria satura di incenso per tentare di coprire i respiri degli altri. De simone, sul pianerottolo, gli aveva fatto strada. Erano abbracciatai. Uno di fronte all'altra, con gli occhi negli occhi per sempre. In mezzo al lenzuolo il fiore rosso a tre punte cambiava forma con il passare dei minuti, diventando più grande e più scuro. "Commisà, gli hanno sparato non più di sei ore fa, probabilmente nel sonno, poveracci. La cosa strana è che, insomma, questa qui è una prostituta. Il proprietario della pensione dice che abita qui da tre anni, e che lui veniva tutti i mercoledì da almeno sei mesi, e pagava per stare tutta la notte. Ma insomma, li guardi, non sembra un cliente" " E quindi? che vuoi dire De Simone?" "E quindi lei conosce qualcuno che se ferma a dormì dopo? La gente de solito scappa pure quannno nun paga, figuramose dopo..."


Erano belli, di una bellezza che avrebbe fatto fatica a spiegare. Tozzi si portò appresso quell'abbraccio per tutta la giornata, anche mentre parlava con Alcide Rosati, proprietario della pensione "Aurora". "Signor commissario, che vuole che le dica, non era un cliente come tanti, arrivava sempre con dei fiori freschi, e ben vestito, e diceva buon giorno anche..”. Rosaria Mancuso in arteTamara” parlava guardando tozzi riflesso nello specchio, aggiustandosi il rossetto con la punta di un dito “Maria diceva che era matto, pulito, e che le lasciava delle gran mance, ma di più non mi ha detto. A volte, si innamorano di noi puttane. Io, ne ho visti tanti. Una volta uno che conoscevo voleva sposarni, ed è finito a spararsi in una discarica a Fregene poveraccio. Qualcuno paga solo per parlare, altri non parlano per niente. E sono i migliori, quelli.


Si chiamava Maria Scaglia, era venuta a Roma alla fine degli anni sessanta dalla sicilia e aveva provato a fare la modella. Il resto ve lo potete pure immaginare. Nella stanza c'erano poche cose. Tozzi trovò un' agenda con qualche numero di telefono, un armadio con delle brutte foto sulle ante e alcuni vestiti. Uno da suora, uno da infermiera, un altro di pelle rossa. Poi alcuni boa di piume. Dentro al comodino c'erano preservativi e vibratori di varie misure, soldi, un frustino di cuoio. Poi, dentro una scatola rossa, in mezzo ad alcune foto con i bordi mangiati in posa da diva, cera un suo ritratto a matita incorniciato. La dedica, poco sopra la firma diceva "Tutto il tempo che non ho passato a disegnarti, è stato tempo perso. Andrea"


Andrea Tebaldi disegnava fumetti. Aveva inziato a vent'anni illustrando roba pornografica, come tutti. Poi, fino al giorno prima di morire, aveva curato una collana western intitolata "Minnesota Ranger". Nelle Tasche della giacca aveva trovato un portafogli di pelle nera con quaranatamila lire dentro, una carta di identità sgualcita. Aveva 38 anni. Era sposato. Nella tasca interna una piccola agendina rossa, scritta a matita con una calligrafia sghemba, un diario. L'ultima pagina segnava la data del 12.11.1977. Sei mesi prima. Tozzi la lesse in silenzio, poi la richiuse e con la stessa cura con cui avrebbe potuto maneggiare un papavero, la aggiunse ai reperti in una piccola busta di plastica trasparente. E uscì. A Tozzi, non piacevano i fumetti.


La signora Tebaldi si era seduta con la borsa poggiata sulle gambe, Tozzi aveva fatto cenno a de simone di chiudere la porta e di levarsi dalle palle, scendere al bar Airoldi e tornare con due caffè ristretti. Paola Tebaldi aveva fatto tintinnare la tazzina del caffè contro il piattino. Poi aveva preso fiato e poi aveva detto:

"Il foglietto che avevo trovato nel portafogli diceva "Pensione Aurora, Via Veroli 69, stanza 23 “ Io a mio marito lo amavo. Lui passava il suo tempo tra quei personaggi buffi, grandi nasi, grandi orecchie, grandi tette. Ero gelosa, anche di questo. Della sua distrazione. Ogni tanto, arrivava sorridendo con un foglio in mano e mi diceva "Questo e Zippo, o Benny, oppure questa è Marla. Poi, ridendo, faceva le loro voci mimava i loro gesti, con la matita appoggiata sopra l'orecchio, come i salumieri. Io a mio marito lo amavo commissario. Ma ho passato metà della vita a dargli le spalle. A volte, si ama per abitudine. Quando ho trovato il ritratto di Maria tra quelli di Benny e Zippo, non ho visto grandi tette, grandi nasi o grandi orecchie. Ho visto gli occhi cerchiati, i denti irregolari, e ho capito che non era Marla, o Wanda. Ho capito che a me il ritratto non me lo aveva fatto mai. Ho capito che il turno del mercoledì alla casa editrice era una canzone. Ho capito quando l'ho visto entrare con il mazzo di fiori in mano, vestito bene. E mi sono sentita morire, dentro quella macchina, all'angolo della strada. Avrei voluto dirglielo che lo amavo, con il tergicristallo rotto, i vetri appannati e la pistola in tasca. Quando sono entrata nella camera 23, erano li, abbracciati nel sonno. Sono rimasta a guardarli in silenzio. Erano così belli nella penombra di quella squallida stanza, sembravano così innamorati uno di fronte all'altra. Belli come noi non eravamo stati mai . Perché nel letto, io, ho dormito dandogli la schiena per tutta la vita. Poi ho tirato fuori la pistola, quella che aveva comprato di nascosto per disegnare meglio i suoi cow boys. Io li odio i fumetti, commissario.”


De Simone l'aveva accompagnata fuori dalla stanza, per il Verbale. Tozzi aveva fissato la foto sopra la scrivania. Camilla aveva un vestito a fiori e salutava in mezzo al rame dei capelli, per sempre. Aveva alzato la cornetta e composto il numero, poi aveva riattaccato. Lesse ancora una volta l'ultima pagina del diario di Tebaldi, infilò il cappotto e uscì dall'ufficio. Scese all'edicola di via Prassede, e comprò l'ultimo numero di Minnesota Ranger.


12.11.1977

Il fatto è, che è la prima volta. Io non l'ho mai fatto. Mai con qualcuno che ha le ciglia finte comunque, né in una stanza rosa. Non lo so che faccia hai dietro quella bocca rossa, sotto quella polvere da farfalla. Tu, potresti essere chiunque, potrei immaginare questo, sei chiunque, un ricordo, un ricordo con un boa rosso intorno al collo segnato, il respiro di tabacco e le ombre scure dei capezzoli dietro una seta da teatro. Ecco, sei un ricordo con le unghie di lacca e una voce di saliva. Io sto ancora in piedi, in una luce da primo atto, con il cappotto tra le braccia a guardare il letto. Il letto degli altri, quelli, prima di me, quelli dopo, avrai il loro respiro, il loro sapore. Con quanti nomi ti hanno chiamata, a quante hai rubato la voce, mimato i gesti. Mi togli il cappotto, e mi chiedi con una voce in prestito, mentre conti i soldi “cosa ti piace?”. Ti fermo le mani sui bottoni “non ti pago per scopare, ne per fingere di venire, per quello, basta mia moglie” “allora, perché ?”. E' la prima volta, non l'ho mai fatto, mai con qualcuno che tenesse la luce accesa e un cazzo di gomma sul comodino. Non l'ho mai fatto con un ricordo. “Ti pago per fingere di amarmi”.

venerdì, luglio 02, 2010

chi ha tempo non aspetti tenco


Franco Matticchio

Potevo buttare le braccia al collo della bottiglia e ballare vestito di bianco pestandoti i piedi, spiarti dal buco nelle mutande per sapere a quali fianchi giuravi domani, sentire le tue bestemmie di rossetto persino. Potevo guardarti dare via quello che era mio con il primo venuto, anche solo per sapere a che prezzo c'è il resto nel palmo. Potevo sentire con la lingua il nero sotto le unghie, il tempo di legno oscuro passato a grattare la tua porta, a pisciare di contentezza sul tuo zerbino, cagna da riporto. Potevo guardarti darmi le spalle o rubarti la schiena con il passo di chi non ha fretta, sostenere il tuo sguardo come un esame, basso e sporco come le tue labiali nel mio petto. Potevo sputare nel piatto dove mangi, per vederti grata della mia infedeltà, e sentirti parlare con loro e dire non lo amo, ma fa compagnia. Potevo dirti vedrai vedrai, e morderti la nuca mentre facevi il verso all'amore con il culo in alto, e venendo in francese. Potevo, si, potevo. Ma mi sono innamorato di me, perché non avevo niente da dare.