martedì, novembre 10, 2009

aurelio


Mark Horst

Perchè?

"il cane aveva una macchia nera intorno all'occhio, e un' altra come uno stivale intorno ad una zampa. aveva messo la testa fuori dalla scatola, e da quel momento ero stato suo. Per sempre. E' buffo, a quei tempi i cani o li chiamavi buck, oppure zorro. Il mio si chiamava Aurelio. Come un mio zio morto in Guadalcanal. Aveva una targhetta di metallo intorno al collo, con il nome ed il numero di telefono inciso sopra."

La coda era cominciata da almeno mezz'ora, prima a passo d'uomo, ora, era completamente ferma all'altezza di Castel San Giorgio, a cinquecento metri da un'area di servizio e ad altrettanti da una colonnina del soccorso stradale guasta. Il commissario Tozzi non faceva il ponte di ferragosto da 15 anni. Il termometro dentro la fiat 124 color crema segnava 39 gradi. Camilla nel sedile a fianco dormiva facendo piccoli scatti con la testa, sognava un piccolo cane con la lingua da un lato fare agguati alle tende del soggiorno. Tozzi mise la testa fuori dal finestrino e disse all'uomo dell'anas che puliva una siepe con un falcetto "ma che cazzo succede?" "s'è rovesciato un tir della Cirio poco prima del tunnel della Folena" aveva risposto senza neanche voltarsi. C'erano ettolitri di salsa di pomodoro in mezzo alla A1 e un tamponamento a catena lungo un chilometro. Ci sarebbero volute ore. A Tozzi gli giravano i coglioni, Camilla dormiva, alla radio davano ininterrottamente un pezzo insopportabile di Federico Monti Arduini. Uscì lentamente dall'auto bestemmiando sottovoce, mentre le ambulanze ululavano ferme sulla corsia d'emergenza occupata da tavoli apparecchiati di ogni ben di Dio.

"L'estate era arrivata presto. Mio padre mi spiega, mentre sbuccia una arancia, che alla "Pensione Stella" di Forte dei Marmi, non ti fanno tenere gli animali e che a luglio, nessuno, tra parenti ed amici si potrebbe prendere cura di lui. Io faccio di si con la testa, ma non capisco cosa vuol dire e continuo a giocare con il cane"

Tozzi aveva fatto quasi mezzo chilometro a piedi, avrebbe voluto pisciare dietro qualche siepe di oleandro, ma non c'era posto, nemmeno per l'ombra. Arrivò zuppo di sudore fino alla porta del bagno pubblico della stazione di servizio "Pianelle". Aprì con un piede cercando di non farsela addosso. Ernesto Airoldi, proprietario del Gran Caffè Airoldi, era piantato fino alle anche nella tazza del cesso, aveva tre fiori in mezzo al petto e le braghe calate alle caviglie. A coprirgli le vergogne, era rimasta solo la copia del messaggero aperta sulla pagina dello sport, Boninsegna s'era mangiato un Goal grosso come una casa. Aveva le braccia calate lungo i fianchi, come appese. Poco sopra la testa penzolava la catenella dello sciacquone, e un'aureola di numeri di telefono scritti con i pennarelli. Lesse il numero di una certa Jasmine che prometteva cose turche, forse perché era turca. Tozzi gli toccò la carotide, era morto. Poi si voltò e pisciò nel lavandino.

"Partiamo per forte dei marmi. Mio padre ha una Fiat 850 celeste chiaro con il volante in finto avorio, che poi è plastica e i coprisedili di paglina, che poi è plastica anche quella. Ho l'emozione della partenza però, e corro in bagno due volte. Aurelio è in una scatola con una coperta, mia madre ha un fazzoletto a pois sui capelli e sistema la calamita sul cruscotto, quella con la faccia di un santo rubizzo che dice vai piano."

Tozzi aveva chiamato De Simone con uno dei due gettoni che aveva in tasca. L'ingorgo avrebbe bloccato l'arrivo delle volanti e dell'ambulanza almeno per altre due ore. Si era fatto dare la chiave dal proprietario del bar e Aveva chiuso il cesso, poi, si era messo a cercare l'auto di Airoldi. "Signora Airoldi?" Barbara Airoldi era rimasta seduta in macchina quasi senza respirare. Tozzi le aveva parlato lentamente, mentre lei fissava un punto oltre il lunotto. Sbirciò dai finestrini, sul sedile posteriore c'erano due valige e una sacca sportiva, un guinzaglio e una museruola. Il sedile era sporco di peli. "avete un cane?" "no, anzi si, cioè, lo avevamo. E' morto." l'aveva presa sottobraccio, aiutata a respirare, poi era andato al bar a prenderle un caffè. Stavano andando in vacanza a Punta Ala, "mio figlio deve respirare aria buona" disse inghiottendo dalla tazzina con la bocca amara. Al posto di guida un bambino di sette anni dormiva come un angelo.

"Il latrato è come il pianto dei bambini lo sapeva?. Mi sveglio di soprassalto e la scatola con la coperta sul sedile accanto è vuota, dal finestrino entra vento caldo, poggio la mano sul vetro e vedo. Aurelio diventa una macchia lontana, sempre più piccola, con la testa di lato come i punti di domanda. Grido più forte che posso, fino a svenire, mentre lo vedo rincorrere l'estate e la mia targa nell'asfalto liquido. Poi, scompare. I miei capelli diventano bianchi."

Aveva accompagnato il ragazzino allo spaccio. lo aveva preso per mano e gli aveva regalato un modellino di automobile. Mentre passavano davanti al distributore il cane dentro la macchina gialla aveva cominciato ad abbaiare, guaire, a scavare nel vetro degli sportelli. I vetri erano chiusi e tozzi vedeva la bocca muoversi a scatti convulsi, lasciando striscie di bava sul vetro. Il cane conosceva il bambino, o così sembrava.

"Alla stazione di servizio mio padre si asciuga il sudore con un fazzoletto sotto il cappello di paglia, mi compra un lecca lecca a forma di spirale, non mi guarda negli occhi mentre me lo porge. Vomito nascosto dietro lo sportello, mentre un pullman di turisti si immette nella corsia di sorpasso, mia madre mi tiene la fronte sotto la ciocca bianca, un uomo con la schiena curva prende a calci la macchina delle bibite, una zolletta di zucchero si scioglie nel caffè sul bancone di latta, una donna si mette una banconota da diecimila nel reggiseno uscendo dal bagno pubblico, sei ragazzi giocano a calcio nel parcheggio, io non ho più un padre, per sempre."

Giancarlo Rivazza balbettava un poco, aveva 42 anni un auto gialla e un cane sul sedile posteriore. "bello, come si chiama?" "Aurelio" lo aveva accarezzato un po'. Tra le dita aveva sentito la piastra di metallo del collare, sotto le impronte digitali c'era scritto "Jack". "De simone fai presto che ho un gettone solo, dimmi qualcosa su un certo Giancarlo Rivazza." Non aveva precedenti, aveva una moglie due figli un ciuffo bianco sulla fronte in mezzo al nero dei capelli. Faceva il fornaio, una vita normale. Ma veva un porto d'armi e il cane di qualcun altro, e forse, non balbettava per un tic. Quando aprì lo sportello il cane si precipitò fuori dall'auto e corse verso il bambino che faceva correre la sua auto giocattolo in una aiuola, con un occhio chiuso e facendo piccoli rumori con la bocca. Nel cruscotto c'era una Beretta sei colpi. Ne mancavano tre. "Signor Rivazza, Facciamo due chiacchere?"

"il passato arriva all'improvviso, lo sapeva? se non mi fossi fermato a riposare. Ma l'ho visto rallentare, accostare, ho visto lo sportello aprirsi e il cane scendere. L'ho visto fargli una carezza, e ripartire, così. Non li ha neanche rincorsi. Allora ho visto Aurelio con la testa di lato e la Fiat 850 celeste volare verso Forte dei Marmi come una mongolfiera. Mi è venuto il vomito come nel parcheggio, ho visto mio padre con il cappello di paglia e lo sguardo basso. E allora lo seguo per quasi duecento chilometri, fino al cesso. "

Quando riaccese il motore erano quasi le otto, Camilla aveva aperto gli occhi e si era stirata in uno sbadiglio. "dove sei stato?" " a fare pipì".