Mi versi il vino e dici:
«Smettila»
«Smettila cosa?»
«Di fare quella cosa, il rumore»
«Ma di che parli?»
«Il rumore che fai mentre mangi. È stata una delle prime cose che mi ha fatto capire che era finita»
«Perché che rumore faccio? Mangio a bocca chiusa mi pare»
«Trascini il cibo con la forchetta spostandolo da una parte all’altra del piatto come in certi film del cazzo americani, mi si chiude lo stomaco quando lo sento, non lo sopporto»
«Ci stiamo lasciando per il rumore di una forchetta?»
«Si, anche»
Ecco, non bisognerebbe mai andare fuori stagione nei posti che ami, o che hai amato, men che meno quelli delle prime volte. Hanno quell’atmosfera decadente e abbandonata che non te li fa riconoscere. Per dire, anche il cameriere sembra diverso oggi. I quadri alle pareti perdono colore, persino i piatti sembrano avere poco sapore, come tutte le cose che finiscono.
«E il sesso?» chiedo.
«Una piacevole incombenza, a volte. Più spesso un obbligo, il prezzo congruo da pagare.»
«Il prezzo per cosa?»
«Per non stare da sola. Essere in due è stato molto consolatorio, come per te ingozzarti di cibo, per dire.»
«Ma è diverso, Io non ho paura di stare da solo. Io mangio perché sto da solo pure quando ci sei. Non è la stessa cosa.»
«Dici di no?»
«Dico che tu non sai stare da sola e pur di non affrontare questa paura, stai anche con me, che di fondo non ti piaccio. La coesistenza diventa un prezzo abbordabile, sono parole tue»
«E tu invece?»
«Io mi ingozzo perché vorrei che mi amassi quanto ti amo io, e per superare il fatto che non è così mi consolo mangiando, anche»
«Questo ti rende migliore di me?»
«No, che c’entra, non è una questione di merito. Forse mi rende solo un pelo più triste, e più grasso»
«E poi cosa significa, anche? Cos’altro fai?»
«Ricordo, per esempio. Ricordo tutto, tu no. Va detto che i momenti buoni sono stati talmente pochi che non è che serva chissà quale attitudine alla memoria, però lo faccio»
«Nemmeno all’inizio? Abbiamo avuto dei bei momenti, ne sono sicura. Quelli per esempio li ricordo, come quella volta al lago, tenevo la testa sul tuo petto e tu mi accarezzavi i capelli»
«È stato uno dei pochi momenti in cui ho creduto che mi amassi, pensa»
«Non credo di averti mai amato. Ti ho voluto bene, questo sì. Anzi sono sicura di averti stimato una volta, ma eri voltato e non ti sei accorto».
Il conto è scritto a penna su un pezzo di carta strappato dalla tovaglia. Sul tavolo restano una bustina di zucchero vuota per metà, la targhetta staccata della minerale e la tazzina del caffè con le tue labbra stampate sopra. Pago per entrambi e controvoglia, a conferma del fatto che due solitudini non fanno una compagnia, nemmeno quando sono sedute allo stesso tavolo.
Che infinita tristezza, descritta magistralmente
RispondiEliminaamanda: e sto pure allegro...
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