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giovedì, novembre 07, 2019

[ Centocelle Blues - Feat. Coccimiglio ]










Le scuole medie, erano un brutto palazzo al confine tra Centocelle e il Quarticciolo, due quartieri che in quegli anni la gente gli toccava viverci non certo per scelta, ci capitavi e basta, perché questo passava il convento, anche se c’erano state la resistenza, i partigiani e Giuseppe Albano detto il “Gobbo”. Però c’erano anche gli spacciatori e le mignotte, per dire. Io per esempio, se i miei sapevano che ero stato al Quarticciolo, capace che mi sfasciavano di botte. Comunque a Centocelle c’erano grandi bar, gelaterie, le giostrine fuori dalla Standa, La vecchia che vendeva le ciambelle all’anice, i capolinea del tram e dell’autobus, scuole pubbliche e private, un mercato rionale e macchine in doppia fila ovunque, la pizzerie di Zio Felice, che con cento lire di bianca stavi a posto per due giorni e pure la fila chilometrica dei tossici per il metadone fuori dalla USL di piazza dei Mirti. Bei tempi.

Mia madre si cuciva i vestiti da sola e manteneva me e lei in un appartamento con un grande balcone dove ho imparato pure ad andare in bicicletta. Anche se in verità la maggior parte del tempo la passavo a tirare uova contro il palazzo di fronte, che a ripensarci, non ho mai capito che cazzo di forma di ribellione fosse. Più probabilmente non mi piacevano le uova. Ma comunque era delle medie che volevo parlarvi.

Avevo fatto le scuole dalle monache. Avevo le gambe secche e i capelli a caschetto. Avevo portato le scarpe col plantare di ferro per correggere un difetto al ginocchio, il che mi obbligò a camminare come Boris karloff per quasi tutte le elementari. Avevo recitato il padre nostro ogni mattina prima delle lezioni, avevo fatto recite scolastiche e osceni manufatti per la festa del papà. Mio padre mi amava molto, li tenne tutti sulla scrivania del suo ufficio finché non se ne andò. Ce n’era uno, il più brutto di tutti, una penna verde fatta col das e decorazioni floreali a tempera. La usava, ve lo giuro su quanto ho di più caro, ci firmava assegni e documenti riservati. Quindi quando entrai in classe all’istituto Caio Valerio Catullo l’impatto fu devastante.

In quella scuola c’era di tutto. C’era “Grifo”, un tredicenne dell’Alessandrino che rubava macchine per uno zio sfasciacarrozze, poi c’era “Niki Lauda” uno che aveva dato fuoco a casa per gioco e aveva mezza testa senza capelli e i genitori ridotti come due sufflè. E poi c’era un ragazzino tarchiato con uno sguardo che aveva già visto troppe cose che non doveva vedere, che aveva fatto già il riformatorio e tutti lo chiamavano “Er Castoro”, per via degli incisivi un poco pronunciati, diciamo.“Quello mena” mi dissero il primo giorno di scuola, cosa che non capii almeno finché non cominciò a darmele un giorno si e l’altro pure. E non le prendevo per la formazione pacifista della mia famiglia, è che proprio mi cacavo addosso. Si metteva fuori dall’entrata della scuola alle otto spaccate e sceglieva nel mucchio qualcuno da menare, le scuse erano sempre le stesse, il più delle volte ti diceva che lo avevi guardato in un modo che non gli piaceva. La verità è che voleva tenersi in allenamento e lo faceva almeno fino alla campanella di entrata alle otto e mezza.

Una mattina, mentre sputavo sangue in una aiuola dopo l’ennesimo pestaggio, mi si avvicina Coccimiglio, un energumeno alto uno e novanta che aveva fatto la terza media per sei anni consecutivi, e infatti nessuno sapeva bene quanti anni avesse. Gli si vedeva la barba però, che qualcosa voleva dire. Era l’unico a cui nessuno rompeva i coglioni per ovvie ragioni. Comunque Coccimiglio mi fissa mentre mi sciacquo la bocca alla fontanella e mi fa:
“Ma perché nun reagisci te?”
“E che vuoi reagire, quello sembra Marvin Hagler, e poi c’ho paura”
“Ma paura de che? Tanto te mena lo stesso, che cazzo te cambia? Armeno fai quarcosa no?”
“E come faccio?”
“Fai che domattina appena lo vedi sulla porta, je dai ‘n ber carcio sui cojoni, e vedi che non lo fa più. A regazzì, Il rispetto te lo devi guadagnà pure si nun hai fatto niente, e poi ricordate che chi mena pe’ primo, mena du’ vorte.”
“Anche tu hai fatto così?”
“Pe forza, mica so’ nato arto du’ metri io… ce so’ diventato pe’ necessità! La paura serve solo a chi capisce che la provi.”
“Ma perché mi aiuti?”
“Perché io so’ comunista.”
“E che vuol dire?”
“Che a me le ingiustizie me fanno incazza’. C’è chi mena pe’ rabbia, come quer cojone der Castoro, chi perché je piace, io invece meno perché a volte è giusto.”
“Insomma, sei una specie di eroe?”
“Ma che cazzo stai a di’, gli eroi nun esistono. Esistono quelli che fanno le cose che vanno fatte. Le cose giuste. Perché la parte giusta esiste, ed è quella che te fa torce le budella quando vedi ‘na cosa sbajata. Così almeno dice mi’ padre che fa er sindacalista. E mi’ padre ci ha sempre ragione, ci ha.

La mattina dopo, trattenendo funzioni corporali per la strizza, e dopo quasi un’ora di autoipnosi motivazionale, mi avvicino al “Castoro” che in tutta tranquillità stava scegliendo lo sparring partner più adatto per la mattinata. Quando è finalmente a tiro, gli sferro un calcio sulle palle con tutta forza che ho, il Castoro si piega in due e comincia a vomitare sulle scale della scuola tenendosi i gingilli con le mani e saltando come una molla. Coccimiglio a braccia conserte mi guarda pieno di orgoglio paterno e soddisfazione, io per quasi mezzo minuto mi sento l’eroe del giorno. Il castoro allora finisce di vomitare la sua colazione, poi si pulisce la bocca sulla manica e senza dire niente mi tempesta di pugni, una raffica di colpi mai vista, quando scivolo a terra sperando in una fine rapida e giusta tra le braccia di nostro signore, Impietosito, mi finisce a calci davanti al bidello Zannataro che ridacchia con le sole gengive.

Persi un dente e mi fratturò un mignolo, ma da quel giorno non mi ruppe più le palle. In qualche modo, con quel calcio sui coglioni mi ero guadagnato inspiegabilmente il suo rispetto. Anni dopo seppi che Coccimiglio era morto durante una rapina in banca. Aveva fatto da scudo con il corpo a una signora con un passeggino. Una che non conosceva. Ma gli eroi non esistono, avrebbe detto lui.

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