Mio padre, che faceva
l’operaio alla Ansaldo ed era comunista, sosteneva che Babbo Natale in realtà
fosse un eroe della rivoluzione russa, una specie di ladro gentiluomo che
rubava i giocattoli ai bambini ricchi per darli a tutti gli altri e,
soprattutto, che non si chiamava Santa Klaus ma Santa Claus Kinski. Era
convinto che anche Gesù Cristo fosse un rivoluzionario socialista “Il primo
della storia”, diceva, ma che poi la chiesa ne aveva fatto un martire bigotto. In effetti, a
ripensarci, l’impressione è che i regali venissero direttamente dal 1917, se
chiedevi un trenino Lima, te ne arrivava puntualmente uno di legno, non
elettrico, da spingere manualmente su un binario tondo facendo: “Ciuf ciuf” con
la bocca. Ai desideratissimi soldatini Atlantic, invece, il Santa Claus Kinski
rispondeva con il fuciliere Ivan, un soldato di latta dell’armata rossa che
muoveva le gambe come se avesse due protesi alle ginocchia e solamente dopo
trentadue giri di carica. Comunque tutto filò liscio almeno fino a quando il
confronto con i regali dei compagni di classe diventò impietoso e imbarazzante.
Così, l’immagine dell’eroe dei primi anni d’infanzia sbiadì rapidamente
lasciando il posto a quella di un vecchio rincoglionito che ti lasciava sotto
l’albero avanzi di magazzino rubati ai figli dello Zar Nicola. L’unico modo per
salvarsi da questa mesta deriva sovietica era fuggire e chiedere asilo politico
a casa di mio zio Salvatore, un democristiano tutto capitalismo e Ave Maria che
aveva un’agenzia di pompe funebri e che, a Natale dell’anno precedente, era
arrivato a regalare ai miei cugini una Fiat 500 in scala 1:2 col motore
elettrico e le frecce intermittenti con cui giravano beati per il parco della
loro villa appena fuori Milano. Il pomeriggio del 23 dicembre 1977, scappai di
casa con un piccolo fagotto e bussai alla porta di mio zio che erano quasi le
nove di sera. Mi accolsero a braccia aperte e con gli stessi occhi colmi di
compassione con cui avrebbero guardato un profugo armeno. Dopo una cioccolata
bollente, biscottini glassati e una sequela ininterrotta di:“Povero, piccolo,
Marco”, mio zio alzò la cornetta, fece il numero di casa mia e disse:
«Gaetà,
smetti di cercare tuo figlio e lascia perdere i carabinieri. Sta qui da me. Sta
bene»
«E che cazzo ci è
venuto a fare lì scusa, non me lo poteva dire? A sua madre Carmelina le stava
per venire un’angina per lo spavento»
«Ma sono cose di
ragazzini Gaetà, è che te non capisci una beata minchia, sei un insensibile.
Marco si è rotto le pallette di fare il figlio della rivoluzione russa e del
tuo cavolo di Santa Claus Kinski. Questo vuole Big Jim, non la matrioska, l’hai
capito o no?»
«E questo che minchia
mi verrebbe a significare? A casa mia il natale lo decido io! O vuoi che se ne
vada in giro vestito come un piccolo Agnelli, con l’orologio sopra il polsino,
come fanno i figli tuoi?»
«È qui che ti sbagli
Gaeta’! Il natale lo decide il mercato, non tu e manco Breznev o Fidel Castro.
Qui non stiamo mica a
San Pietroburgo! Qui c’è il capitalismo, beato Cristo! Perché per fortuna, nel
‘quarantotto, le elezioni le abbiamo vinte noi! Stai crescendo quella povera
creatura come un disadattato fuori dal tempo»
«Voi non avete vinto
una beata minchia e te, meno di tutti, visto che nel quarantotto ti facevi a
malapena le seghe! Quelle elezioni le avete truccate, lo sanno tutti!
Altrimenti ora stareste tutti ai lavori forzati in Siberia!»
«È questo il vostro
problema, voi comunisti vivete in un mondo tutto vostro, fate fantapolitica.
Trovate una scusa per tutto, non sapete perdere e mentre vi scannate tra di
voi, il mondo va avanti. Che poi, diciamocelo chiaramente: per voialtri la
Russia è il paradiso terrestre a patto che ci vivano i russi! Se oggi te ne vai
in giro con la tua macchinina millecento e ti fai le vacanzucce a Cattolica è
anche grazie ai soldi americani del piano Marshall, bello mio»
«Ma questo con mio
figlio che cazzo c’entra mo’?»
«C’entra che un giorno
vi sveglierete come quel soldato giapponese nella foresta e scoprirete che
tutti i bambini del mondo sono felici con il dolce forno e Cicciobbello!
Quindi, i patti sono questi: domani sera venite tutti a cena qua, tu te ne stai
buono e calmino senza fare i tuoi soliti comizi da sindacalista di ‘stocazzo, e
quando apriamo i regali fai finta di essere contento almeno, e poi ti riporti a
casa tuo figlio come se niente fosse»
«Che gli hai regalato,
Salvo? Dimmi la verità…» Chiese mio padre con un filo di voce.
«Un carro armato
americano a pedali, con tanto di elmetto e fucile mitragliatore. La liberazione
del piccriddu, va’ festeggiata in modo adeguato, compagno Gaetano» Mio padre lo
mandò a ‘fanculo proprio mentre suo fratello gli attaccava il telefono in faccia,
sghignazzando. Alla cena del 24, mio padre non disse niente per tutta la sera.
Era talmente avvilito
per la sconfitta che ingoiò senza accorgersene persino l’anguilla, che gli
aveva sempre fatto schifo. E quando aprimmo i pacchi sotto un albero di Natale
alto come un condominio a tre pani, mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi.
Non ho mai capito se fosse per la presa di coscienza che le cose non erano
andate come sognava lui e che la dittatura del giocattolo proletario non
sarebbe mai arrivata, oppure per aver perso il suo ruolo e quel tocco di magia
e fascinazione che solo i padri hanno con i propri figli o se, in qualche modo,
a forza di raccontarmela avesse finito per credere davvero alla storia di Santa
Claus Kinski. Sì, perché l’espressione che gli vidi sulla faccia quella sera
era la stessa identica, spiccicata, di ogni bambino nel momento in cui scopre
che Babbo Natale non esiste.
Comunque, da quel
giorno, niente fu più come prima e dal Natale seguente aprimmo le porte di casa
al mercato occidentale. Il capitalismo vinse la sua battaglia a colpi di
bambole parlanti, pistole spaziali e caschi da astronauta. Quello che volevo
dirvi, però, è che di quel carro armato a pedali che aveva calpestato il Natale
bolscevico di mio padre, persi ben presto le tracce lasciate dai suoi cingoli
di gomma per tutta casa.
Il fuciliere Ivan,
invece, è ancora qui, sulla mia scrivania, proprio vicino a una foto di me e
mio padre in vacanza in montagna. E per ricordarmi di lui, quando mi viene un
poco di malinconia, mi basta dare trentadue giri di carica.
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